Il futuro di Salesforce, tra intelligenza artificiale e attenzione alla diversità
A marzo del 2020, quando il mondo si è chiuso nel lockdown pandemico, con le strade bloccate e il divieto di uscire di casa, spostare 50 mila dipendenti in tutto il mondo dal lavoro in ufficio a quello domestico è stato come girare un interruttore: “Un esercizio di un fine settimana”. La ragione? “Eravamo già un’azienda nativa digitale”. Sul biglietto da visita di Vala Afshar c’è scritto “Chief Digital Evangelist”. È l’ambasciatore digitale di Salesforce, il colosso del software aziendale via cloud. Casa a Boston, radici iraniane e ufficio nella nuvola digitale. Afshar si definisce un “doppio immigrante”: assieme ai suoi genitori a dieci anni è emigrato negli Usa, dopo la caduta dello Scià di Persia. Ma è anche un signore di mezza età che gira il pianeta parlando di digitale pur essendo nato in un mondo analogico: è un immigrante negli Usa ma è anche e soprattutto un “immigrante digitale”. “Non sono un nativo digitale – dice a Milano, di passaggio per l’evento annuale organizzato da Salesforce con i suoi clienti e partner – perché non sono nato con le tecnologie digitali. Invece, mi sono adattato e sono cambiato con il mondo. È così anche con le aziende che possono essere immigranti. Salesforce è nata nel cloud, già completamente digitale, nel 1999. Ma oggi, nella nostra economia iperconnessa, sono cambiate tantissime cose. Tuttavia, a fare la differenza, deve essere chiaro, non sono le tecnologie ma le persone e la loro cultura”.
Insegnare l’innovazione
Il lavoro di Afshar è proprio questo: insegnare come si fa innovazione digitale. Nell’interesse della sua azienda, certamente, ma anche in quello dei potenziali clienti, che sono i primi a beneficiare di una trasformazione verso il cloud che richiede molto di più e molto altro rispetto a un software da installare o a un nuovo server da prendere in affitto. Invece, la tecnologia si basa sulla motivazione. “Non basta – dice – che i clienti amino i tuoi prodotti o, nel nostro caso, i nostri servizi cloud. Se anche i tuoi dipendenti non ti amano, non funziona niente. Per questo mi piace parlare di “azienda centrata sui dipendenti”, di “customer company”. Per noi e per i nostri clienti. È una questione di cultura aziendale che è fondamentale ma non la definisci con gli ordini di servizio. La cultura di un’azienda è quello che le persone dicono del loro lavoro quando il manager esce dalla stanza”.
Salesforce continua a crescere da 24 anni sotto la guida di Marc Benioff (che sembra stia organizzando la sua successione al vertice della società). Nel 2021 era la più grande società di software al mondo per capitalizzazione di mercato (250 miliardi di dollari), è passata da 5 milioni di fatturato nel 1999 a più di 21 miliardi nel 2021, con 150.000 clienti del suo software gestionale in tutto il mondo, inclusi grandi aziende come Coca-Cola, Unilever, Amazon e Adidas. Tutti online, perché l’azienda vende il suo software come servizio via cloud: niente da installare, niente da portare in azienda.
L’intelligenza artificiale
Il futuro passa attraverso le intelligenze artificiali e, con una serie di accordi con OpenAI, Salesforce sta mettendo le AI nei suoi prodotti: Einstein GPT porta gli strumenti di intelligenza generativa dentro Customer 360, Tableau, MuleSoft e Slack. Tableau (software per l’analisi e la visualizzazione dei dati) e Slack (chat collaborativa per i clienti) sono due ottimi esempi di come si usano le AI: automatizzano in maniera che non poteva essere fatta meccanicamente dal software tradizionale le procedure di analisi e selezione delle informazione. Ad esempio, Slack, il software di chat aziendale simile concettualmente a gruppi organizzati di WhatsApp. Non si tratta solo di chiedere a SlackGPT dentro Slack quali sono gli ultimi dati su un dato business. Oggi cercare il senso di una discussione in migliaia di interventi magari nell’arco di più settimane, o un determinata versione di un documento condiviso e modificato più volte, è praticamente impossibile. Qui interviene SlackGPT: basta chiedergli qual è il senso della discussione e in un attimo arriva la sintesi di migliaia di ore-uomo di ricerca e analisi dei dati. “Le AI – dice Afshar – supportano e aiutano a ridurre il rumore e aumentare la definizione del segnale, cioè delle informazioni di cui abbiamo bisogno. Aiutano a orientarsi nel flusso, cosa che è molto importante perché tutte le aziende, come le persone, sono un in uno stato fluido, non statico”.
In ascolto
Con la pandemia, centinaia di milioni di persone hanno scoperto che potevano usare internet in modo diverso sia per la propria vita che per il lavoro. Se in molti Paesi c’è stata un’esplosione nell’e-commerce, dall’altro lato c’è stata anche la scoperta del lavoro da casa, della possibilità di rivoluzionare i tempi e gli spazi della vita. Cosa che, dopo la pandemia, ha contribuito ad aprire la strada a fenomeni come il “Silent Quitting” (i lavoratori che diminuiscono gradualmente il proprio impegno in azienda) e la “Great Resignation” (le dimissioni vere e proprie). Fenomeni ai quali, secondo Afshar, si risponde con i valori aziendali e l’orgoglio del lavoro, l’inclusione e la capacità di ascolto per togliere i pregiudizi dal software. Cioè quei “bias” che creano errori alle volte traumatici per chi li usa. “Un mondo guidato – dice – sempre più dalla tecnologia, con gli algoritmi che codificano le nostre idee e le nostre credenze ha bisogno di innovazione, certo, ma anche di inclusione della diversità, perché non possono essere solo 50 uomini bianchi di mezza età che scrivono tutti gli algoritmi. Altrimenti rimaniamo congelati nei loro pregiudizi. E poi c’è la sostenibilità, perché il pianeta è uno degli azionisti di riferimento di tutto quello che facciamo, in azienda e fuori”.
La diversità
Il concetto di flusso è al centro dell’idea di innovazione e crescita secondo Afshar, che però vede anche il bisogno di continuare ad ascoltare le persone per aiutarle a imparare: “Oggi il 54% dell’umanità ha accesso a internet. È un risultato incredibile, ma c’è ancora moltissimo da fare. Ogni 10 secondi in India una persona si collega per la prima volta alla rete. C’è ancora tantissimo spazio per crescere. E per rendere la nostra società sempre più inclusiva dobbiamo creare algoritmi con meno bias. Per farlo, l’unico modo è aumentare la diversità di esperienze e di pensieri delle persone che lavorano in azienda. Una cosa che, tra l’altro, dà un vantaggio competitivo a chi lo fa perché quanto più si è diversi e unici, quanto più si ha successo”. La cosa più difficile di questo processo? Non è imparare cose nuove, ma dimenticare quelle precedenti. “Nessuno perde il lavoro per una AI. Invece, lo si perde quando qualcun altro sa usare le AI e noi no. Per questo bisogna capire che il ciclo è “imparare, disimparare e imparare di nuovo”. E la parte più difficile è sempre disimparare, perché seguiamo le vecchie abitudini anche quando avremmo la possibilità di imparare cose nuove straordinarie. Il vero cambiamento è disimparare”.
Fonte: repubblica.it