Kentucky Fried Chicken: «Otto nuove aperture quest’anno, il Covid non ci ferma»

Kentucky Fried Chicken punta ad aprire altri otto ristoranti da qui alla fine dell’anno: il piano di espansione in Italia non si ferma, ma viene «tarato» alla luce dei cambiamenti di distanziamento sociale imposti dal coronavirus. «Avremo più delivery e drive thru», annuncia Corrado Cagnola, Ceo di Kfc Italia che ha sede a Milano. Attualmente la catena nata dall’idea imprenditoriale del Colonnello Harland Sanders, conosciuto per il pollo fritto preparato secondo l’Original Recipe, ha 38 punti nel nostro Paese dove è sbarcata nel 2014.

Le aperture rimandate dall’emergenza sanitaria sono ai nastri di partenza. Due ristoranti sono già pronti, uno a Milano in corso Vittorio Emanuele aprirà ai primi di giugno l’altro a Bari nell’edificio della stazione. Altri due sono in costruzione a Pomezia e a Roma in un centro commerciale. «Inizialmente – dice Cagnola – avevamo previsto quindici aperture con possibilità di arrivare fino a venti, ma in questi mesi è stato quasi tutto fermo: i cantieri e le autorizzazioni».

L’emergenza ha rallentato il piano e lo ha modificato in corso d’opera sulla base di quella che Kfc si aspetta sarà la nuova normalità: «Abbiamo previsto di aumentare i canali senza contatto, come il delivery e il take away. Il drive è diventato molto interessante, cerchiamo location su strade con grande passaggio veicolare e spazio a disposizione». Durante il lockdown Kfc non ha mai completamento chiuso. «Siamo rimasti praticamente sempre aperti, tranne qualche giorno per organizzare meglio il delivery in modalità contactless e sigillo dei sacchetti. Abbiamo riscritto il manuale operativo adeguandolo per il servizio in sala, che è ripreso a metà maggio. In cucina adottavamo già procedure di igiene e sanificazione. Se prima del Covid l’80% delle nostre vendite era con le cene sul posto e il 5% con il delivery, ora riteniamo che i canali si bilanceranno. Stiamo sperimentando un nuovo canale sperimentale, clic and collect, per ordinare prima e avere l’asporto già pronto».

Nuove aperture significa investimenti nel nostro Paese. «Ogni location – spiega Cagnola – costa da 600mila a un milione di euro. Il drive costa di più per gli allestimenti esterni. I punti vendita sono in franchising con la casa madre americana e attualmente danno lavoro in Italia a più di mille lavoratori, oltre il 90% a tempo indeterminato, con contratto del turismo e settore dei pubblici esercizi. Il fatturato medio è di circa 1,7 milioni di euro per ristorante all’anno, su cui pagano una royalty del 6%, e le previsioni per quest’anno non sono molto diverse. Contiamo entro la fine dell’estate di recuperare un livello di vendite simile al 2019».

L’espansione della catena in Italia in futuro potrebbe significare investimenti anche nel settore alimentare. La carne attualmente viene dall’estero, ma se si raggiunge una massa critica potranno essere chiamati in campo gli avicoltori italiani. «Attualmente per il fresco e freschissimo (pomodori, insalata) e per le bevande abbiamo fornitori stranieri che producono in Italia come Bonduelle e Pepsi. Il pollo viene dalla Polonia, premarinato, tagliato e congelato crudo, ma stiamo dialogando con la filiera avicola italiana, che è di assoluta qualità. Ma il punto è che noi richiediamo tagli particolari che richiedono una linea di produzione dedicata. Per ammortizzare l’investimento, i fornitori hanno calcolato che è necessario un giro d’affari proveniente da 80 punti vendita: crediamo di raggiungerli in due anni e mezzo».

Kfc, una società del gruppo Yum! che comprende anche i marchi Pizza Hut e TacoBell, è presente in Italia non soltanto nella ristorazione, ma anche nella solidarietà. «Attraverso Yum! Foundation – dice Cagnola – abbiamo donato 50mila dollari alla Rete Banco Alimentare che opera al centro di una filiera impegnata quotidianamente nella consegna di prodotti alimentari a persone bisognose. Siamo stati la prima azienda del fast food nel nostro Paese a intraprendere un’iniziativa di recupero e donazione delle eccedenze alimentari: in due anni, con il programma Harvest, abbiamo donato 25cinque mila pasti».

E dal punto di vista del benessere animale? «Oltre al rispetto della normativa Ue – precisa Cagnola – abbiamo due protocolli aggiuntivi: quello che chiediamo è superiore alla normativa di base. I polli devono essere allevati a terra all’aria aperta, e avere a disposizione aria e luce naturale. Controlliamo i mangimi e non usiamo sostanze per l’accrescimento accelerato. Il benessere animale è garantito anche nell’ultima fase della vita. In questo momento il cliente sceglie che cosa mangiare anche in base a questo aspetto».

Fonte: corriere.it

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