Il made in Italy diventa un format da esportazione
Un vero e proprio boom per le catene italiane che dopo anni di rodaggio in patria, per un settore che vale circa 23 miliardi di euro e complessivi 187 mila addetti, comincia a diventare grande anche oltre confine. Con l’effetto positivo di fare crescere in patria un indotto di materie prime alimentari, di componenti di arredamento-design e di tessile moda. Nel 2005 i punti vendita affiliati a marchi tricolore erano 4.700, nel 2013 il numero era quasi raddoppiato a 7.730. Ormai, circa il 20% delle nostre catene (quasi a quota mille quelle create da imprenditori italiani) ha sviluppato strategie di internazionalizzazione. Ancora poco rispetto agli altri paesi. Ma il trend comincia a progredire a doppia cifra, con aziende che generano fino al 40% dei propri ricavi grazie a canone di affiliazione, royalties e vendita di prodotti. Chi l’avrebbe mai detto, solo un paio di lustri fa, quando il commercio italiano, incamminandosi verso il declino dei consumi sul mercato domestico, temeva la scomparsa di bar, caffetterie e osterie di casa nostra a discapito dell’invasione (in franchising) di potenti brand globali come Starbucks, McDonalds e Pizza Hut. Dopo le esperienze pionieristiche di brand come Benetton, questo modello di sviluppo di matrice anglossassone è invece diventato un grimaldello per le piccole e medie imprese italiane che puntano a fare breccia all’estero. Qualità del prodotto in Italia non manca, format di rivendita dal design elegante neppure. Fino a ieri mancavano però le risorse. Ma con la politica di investimento e di rischi condivisi del modello franchising anche le Pmi possono permettersi di vedere moltiplicare le proprie insegne. Non è un caso che tante aziende sono giovanissime, o comunque non hanno più venti anni di vita, e operano su più canali, dalla vendita diretta, al franchising e anche l’ecommerce (quando il tipo di prodotto lo consente).
Gli economisti lo chiamano l’export intermedio, una forma indiretta a costi ridotti per penetrare nuovi mercati. Ma il bello è che sostenendosi su queste gambe stanno nascendo dei campioni nazionali in diversi settori. Il caso di Calzedonia è probabilmente il più luminoso per dimensioni di fatturato (1,8 miliardi di euro) ed estensione della rete (3.500 negozi in 35 Paesi), che in meno di trent’anni è diventato un’industria leader nell’abbigliamento intimo e nella calzetteria. E anche La Perla, ex oggetto del desiderio del gruppo Calzedonia, oggi in mano a Silvio Scaglia, punta all’espansione all’estero con il suo primo franchising Shop in Shop, recentemente approdato a Baku, in Azerbaijan. Un altro big dell’industria, in questo caso dell’alimentare, che ha fatto leva sul modello delle concessioni in franchising è il gruppo Cremonini, che articola la propria offerta su diverse insegne: Roadhouse Grill, i punti ristorazione Chef Express (freschi di ingresso in Cina), Mr Panino, Gourmé, Gusto Ristorante. Due anni fa la società guidata da Vincenzo Cremonini è sbarcata anche nel mercato inglese della ristorazione nelle stazioni ferroviarie acquisendo la catena Bagel Factory. Ma non solo. Basti pensare allo sviluppo di brand storici come Illy Caffè (138 punti vendita all’estero), Lavazza (25) e l’occhialeria di Nau che ha in agenda prossime aperture in India. Continua a crescere anche Pianoforte Holding, la società che controlla i brand Yamamay, Carpisa e Jacked, che ha in cantiere l’apertura di altri 400 negozi in 5 anni, e che fattura quasi 300 milioni di euro, impiegando 1700 dipendenti diretti e 1000 nel franchising. Oppure Cigierre, nata nel 1995 a Udine, che si è inventata la formula dei ristoranti etnici (da Old Wild West, Arabian Kebab e Cantina Mariachi), 150 ristoranti che si arricchiranno di altri 25 locali nel corso del 2015. Infine ci sono nuove realtà capaci di sbancare con un solo accordo il mercato cinese: la Syn-Gest della famiglia Rabboni infatti ha firmato una partnership per l’apertura di 300 gelaterie a insegna “cigusta!”. Sulla nave del franchising all’estero c’è anche il simbolo del Made in Italy: la pizza da 100 milioni di euro di ricavi di Rossopomodoro di Franco Manna che è presente in dieci ristoranti nel Regno Unito, due a New York, a Chicago, poi Istanbul, Ryad e Jedda; e per il 2015 verrà servita in altri 5 nuovi locali.
tratto da affari & finanza