Yamamay: «Nella sostenibilità l’impegno va misurato. La nostra sfida è rendere i consumatori più sensibili»

Dai costumi circolari all’intimo a impatto zero. Per Yamamay, leader italiano nella produzione e distribuzione di prodotti di intimo, lingerie e moda mare, presente in 44 Paesi con 603 negozi, la sostenibilità è una sfida vissuta con impegno. Barbara Cimmino, Csr director di Yamamay (Gruppo Pianoforte cui fanno capo i brand Yamamay e Carpisa, controllato dalle famiglie Cimmino e Carlino), racconta a SustainEconomy.24, report de Il Sole 24 Ore Radiocor e Luiss Business School, l’esperienza in un mondo ancora poco virtuoso. E lancia le sue sfide: sensibilizzare i consumatori e produrre meno ma vendere di più. Forte nel 2020 di incassi retail pari a 299,9 milioni di euro per 19,5 milioni di pezzi venduti. E soprattutto l’attenzione alle metriche, «la chiave di svolta per il settore».

Il tema dell’attenzione all’ambiente trova sempre più spazio nel mondo della moda. Si conciliano i temi della sostenibilità con il fashion e il retail?

« Dal post pandemia in poi l’argomento è diventato molto forte e le aziende del settore fashion sono effettivamente impegnate in un percorso di sostenibilità che, a mio avviso, deve necessariamente confrontarsi con le misurazioni degli impatti sia sull’ambiente che sulle persone. Noi abbiamo deciso volontariamente, perché non siamo una società quotata, di pubblicare il bilancio di sostenibilità e intendiamo più che conciliare, inserire la sostenibilità nel nostro piano strategico. La nostra, volontaria ed in tempi non sospetti, è stata una decisione dettata dal voler modificare gli obiettivi di crescita con un occhio molto preciso e puntuale agli impatti che il fashion ha sull’ambiente e sulle persone. Ci sono dati scientifici incontrovertibili che la moda è la quarta industria al mondo per inquinamento. Non è più tempo di conciliare ma è arrivato il momento di agire. Noi, come Yamamay, abbiamo due motivazioni molto forti per farlo perché crediamo che questo migliori l’efficienza aziendale e già abbiamo dei Kpi molto positivi: la prima leva è legata alle banche perché è chiaro che, oggi, le banche finanziano soltanto le aziende che sono impegnate sul fronte della sostenibilità in modo formale; la seconda leva, molto importante, è rappresentata dai consumatori».

Vorrei soffermarmi sui consumatori per chiederle proprio che tipo di risposta riscontrate e qual è la sensibilità?

«Noi siamo retailer e, quindi, a differenza di altre aziende del settore fashion, che hanno diversi canali distributivi e attingono alle informazioni del mercato a distanza di tempo, sappiamo cosa pensano i nostri clienti molto velocemente. E, oggi, riscontriamo un gap che vogliamo assolutamente colmare: il consumatore fa delle dichiarazioni di buoni intenti relativamente alla scelta di prodotti di abbigliamento, che siano etici piuttosto che innovativi o circolari, ma poi nelle decisioni di acquisto si comporta in modo diverso. Vogliamo colmare questo gap per acquisire anche un vantaggio competitivo. Se non riusciamo a colmarlo avremo sempre fasce molto consumistiche e, quindi, orientate al prezzo. Che il prodotto sia sostenibile o non sostenibile, al dunque, interessa poco e quello che conta è il prezzo: è questa l’enorme sfida del momento da affrontare».

Il percorso di sostenibilità del vostro gruppo passa anche per progetti molto concreti e collezioni orientate all’economia circolare e all’eco-design. Ci parla dei progetti attuali e futuri?

«Tengo a sottolineare che, per noi, i progetti sono stati un modo per capire come misurarci e ne abbiamo attivati tantissimi, già dal 2014, che ci hanno permesso di cambiare il modo di lavorare in azienda e favorire il dialogo con aziende che fanno componenti e università. E’ del 2014 il nostro primo progetto di eco design con la serie Sculpt che ora ha registrato l’ultima novità, Sculpt Zero, una linea di intimo modellante che compensa le emissioni di carbonio. E’ prodotta in Sri Lanka con tessuti italiani e, per compensare le emissioni, Yamamay ha sostenuto un progetto di sviluppo di energia rinnovabile nel Paese. Molto importante è stata l’iniziativa della linea di costumi ‘Edit’ perché, in Italia, il tema dell’economia circolare nel fashion è ancora molto destrutturato: c’è la volontà di progettare indumenti che siano circolari ma poi per fine vita non si sono ancora costruiti gli hub. Con questa serie di costumi abbiamo fatto un esercizio virtuoso, che completeremo, poi, nel 2022 con il progetto di take-back. Si tratta di una serie di costumi da bagno e di accessori tutti fatti con un polimero di poliestere riciclato e riciclabile. Qui abbiamo avuto una certificazione da Ergo Team dell’80%, un punteggio che si ottiene dopo anni di messa a punto e testimonia il fatto che nei nostri uffici stile il ragionamento su come disegnare un prodotto circolare è già acquisito. E poi abbiamo un caso di questi giorni con le scorte che sono andate esaurite a due settimane dal lancio: è il caso di Principessa Super Bra, un reggiseno che mira a un altro tipo di sostenibilità che è quella di produrre meno e vendere di più. Grazie ad un lavoro di carattere scientifico sui big data con l’ottimizzazione delle taglie siamo riusciti, con tre misure, a coprire ben 25 taglie di reggiseno: è estremamente inclusivo. Questa è una strada in cui credo tantissimo e che aiuterà a sostenere una crescita felice. Non dobbiamo vendere meno ma produrre meno e vendere di più: questo è il vero tema che la nostra industria deve affrontare e del quale poco si parla perché è difficile».

Quindi un futuro sempre più circolare e inclusivo nei vostri programmi?

«Noi faremo un 2022 molto orientato alle misurazioni verso la supply chain, chiederemo ai nostri fornitori di misurarsi insieme a noi e probabilmente un numero minore di progetti ma tanta più attenzione al tema delle metriche perché questa è la chiave di svolta del nostro settore. Con le metriche è possibile cominciare a sviluppare dei ragionamenti che portino ad una sostenibilità maggiore. Senza, diventano discorsi dubbi. Non credo più alla sostenibilità raccontata a livello di marketing ma ad aziende seriamente impegnate e che misurano realmente i Kpi e ne rendono conto agli stakeholder».

Fonte: ilsole24ore.com

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